L’Italia insieme al Sud Europa per lo sviluppo della Blockchain

Martedì, 04 Dicembre 2018

La notizia è di quelle che fanno ben sperare riguardo allo sviluppo e all’ utilizzo della rivoluzionaria tecnologia Blockchain anche nel futuro del Belpaese. Vi riporto direttamente quanto appare sulla pagina web del Ministero dello Sviluppo Economico. Rimane comunque l’affascinante dubbio di quali saranno i risvolti normativi nell’ambiente delle criptovalute ed in particolare del Bitcoin, indissolubilmente  legati proprio alla Blockchain.

L’Italia firma dichiarazione sullo sviluppo della Blockchain con i Paesi del MED7

 

Blockchain e tecnologie basate su registri distribuiti (DLT) possono giocare un ruolo determinante nello sviluppo di questi Paesi

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Oggi l’Italia ha sottoscritto una dichiarazione sullo sviluppo della Blockchain nell’ambito del MED7, il gruppo costituito da sette Paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Francia, Malta, Cipro, Grecia e Portogallo).

Nella dichiarazione si riconosce come la Blockchain e, più in generale, le tecnologie basate su registri distribuiti (DLT) possano giocare un ruolo determinante nello sviluppo di questi Paesi. E’ necessario, pertanto, creare un coordinamento anche tecnico tra i Paesi, per sperimentare l’utilizzo di queste tecnologie e di quelle emergenti (5G, Internet of Things, AI).

Nei negoziati che hanno preceduto la firma della dichiarazione, l’Italia ha rimarcato come risulti determinante favorire la conoscenza e la sperimentazione delle tecnologie emergenti a tutti i livelli ed assicurare che, nella costruzione di una cornice giuridica di riferimento, venga garantito il mantenimento del loro carattere decentralizzato.

“Il nostro impegno è rivolto a rendere l’Italia un Paese leader nello sviluppo e nella sperimentazione della Blockchain, nel bacino Mediterraneo e in Europa. Al Ministero dello Sviluppo Economico abbiamo avviato delle sperimentazioni per la tutela del Made in Italy. I fondi stanziati con la legge di bilancio rafforzeranno queste sperimentazioni che accompagniamo con la creazione di una prima cornice giuridica di riferimento per la tecnologia Blockchain”, ha dichiarato il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio.

Intelligenza artificiale e blockchain: selezionati gli esperti

Giovedì, 27 Dicembre 2018

Elaboreranno la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale e la strategia nazionale in materia di tecnologie basate su registri condivisi e blockchain

 

 

Si sono concluse le selezioni per i Gruppi di esperti di alto livello che insieme al Ministero dello Sviluppo Economico elaboreranno la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale e la strategia nazionale in materia di tecnologie basate su registri condivisi e blockchain.

Le selezioni sono state effettuate in base ai criteri, riportati nell’avviso, di competenza ed esperienza comprovate e strettamente pertinenti, anche a livello europeo e/o internazionale, nell’ambito dei relativi settori di intelligenza artificiale e tecnologie basate su registri distribuiti e blockchain e nelle loro applicazioni, comprese le competenze di chiara rilevanza in ambito tecnologico, imprenditoriale, giuridico e scientifico; nonché la comprovata capacità di rendere note efficacemente le esigenze e le istanze degli stakeholder o dell’organismo di riferimento.

Il MISE ritiene priorità fondamentale per il nostro Paese conoscere, approfondire e affrontare il tema dell’Intelligenza artificiale e delle tecnologie basate su registri distribuiti e blockchain, nonché aumentare gli investimenti pubblici e privati in tale direzione e nelle tecnologie strettamente connesse alle stesse, come già espresso nelle linee programmatiche presentate dal Ministro Luigi Di Maio.

Per assicurare trasparenza e poter beneficiare della massima condivisione e del contributo dell’intera comunità di interesse, le Strategie Nazionali Intelligenza artificiale e Blockchain, una volta elaborate, saranno poi sottoposte a consultazione pubblica.  La prima riunione degli esperti selezionati si terrà nel mese di gennaio 2019.

Il Ministro Luigi Di Maio ha dichiarato: “Le numerose e qualificate manifestazioni di interesse pervenute nell’ambito della selezione dei Gruppi di esperti dimostrano il patrimonio di conoscenze ed esperienze che abbiamo in Italia sulle tecnologie emergenti.  Ringrazio tutti coloro i quali hanno manifestato la propria disponibilità e sono certo che insieme agli esperti selezionati sapremo costruire delle Strategie cruciali per lo sviluppo del nostro Paese all’insegna dell’innovazione”.

Qui link per accedere agli elenchi degli esperti

In Slovenia arriva la prima Bitcoin City

Ott 24, 2018

Un centro commerciale con 21milioni di visitatori all’anno che vengono per utilizzare servizi offerti da oltre 4mila aziende con 10mila marchi diversi: Bitcoin City,  è la prima città in Slovenia che accetta criptovalute

In tutto il mondo si stanno moltiplicando le iniziative territoriali che mirano a consentire ad un’ampia clientela l’utilizzo di criptovalute su larga scala. Ma a ben vedere non è necessario spostarsi oltre oceano, basta infatti andare nella vicina Slovenia per poter fare acquisti (di tutti i tipi) in moneta digitale.

La Slovenia è un Paese che conta in tutto poco più di due milioni di abitanti. La sua posizione è strategica tra Italia, Austria, Croazia, Ungheria e il suo ecosistema delle startup è in piena crescita. Il paese è stato anche recentemente nominato “la Silicon Valley of Europe”.

Le tecnologie qui sono andate così lontano che a Lubiana, la capitale slovena, la gente non vede nulla di inconsueto nel passare un giorno nel centro commerciale Bitcoin City, dove tutti i negozi accettano la criptovaluta e operano tramite tecnologia blockchain.

BTC City è il primo centro commerciale ad accogliere le criptovalute attraverso la tecnologia EliPay rilasciata da Eligma, una startup specializzata in smart commerce.

 

Eligma, la startup di fintech

Bitcoin City rappresenta il primo vero ecosistema di intrattenimento basato sulle più recenti tecnologie. È il risultato di una proficua collaborazione tra BTC City uno dei più grandi business shopping e logistici dell’Europa centrale, ed Eligma una startup specializzata in soluzioni di smart commerce.

Eligma si definisce una piattaforma tutto fare per l’e-business: comparatore di caratteristiche dei prodotti e di prezzi per singolo prodotto; consigliere personale per gli acquisti negli e-commerce e nei centri commerciali; piattaforma per la vendita diretta di prodotti tra cittadini. Grazie alla nuova piattaforma la crypto community può finalmente spostare i soldi dagli exchange ed usarli per fare acquisti di qualsiasi cosa, grazie al sistema EliPay.

“Questa – secondo il founder Dejan Roljic – è la giusta direzione per mostrare il vero valore delle monete digitali.”

L’area di BTC City

L’area di BTC City ha una portata di oltre 21 milioni di visitatori all’anno, che vengono qui per utilizzare i servizi offerti da oltre 4.000 aziende con 10.000 marchi diversi. I numeri sono piuttosto impressionanti: 70 bar e ristoranti, 450 negozi e attrazioni, come un parco acquatico, un complesso cinematografico, un teatro e una sala da concerto. BTC City è anche sede di un mini-golf, un parco acquatico con spa, centro di intrattenimento, cinema 3D e Crystal Palace, la torre più alta della Slovenia.

 

Il sistema di pagamento EliPay

Rispetto ai tradizionali business shopping, Bitcoin City sfrutta la tecnologia blockchain per fornire il massimo livello di sicurezza. I visitatori dell’area possono godere di una vasta gamma di opzioni di pagamento disponibili, solo in criptovalute. La startup Eligma ha sviluppato il proprio sistema di pagamento Elipay che consente di pagare in criptovalute tramite un’app.

Il sistema di pagamento Elipay è costituito da un’app mobile per gli utenti e una soluzione POS per i commercianti. L’app è già disponibile per il download da Google Play e App Store. Attualmente supporta pagamenti in bitcoin, cash bitcoin ed etere, con alcuni token ERC-20 da aggiungere in futuro. Per effettuare una transazione di pagamento, il consumatore deve solo eseguire la scansione del codice QR dell’acquisto presso la cassa e confermare la transazione nell’app.  La somma indicata verrà all’istante sottratta dal portafoglio digitale deo consumatore.

 

La Storia

Il nome BTC City deriva dalla società BTC fondata nel 1954 come impresa di logistica, che nel corso del tempo ha creato molti magazzini nel nord-est di Lubiana.

Nel 1990 il complesso è stato convertito in area commerciale adottando il nome di BTC City, ed ora si definisce “il più grande e popolare centro commerciale, ricreativo e culturale europeo” della Slovenia. A proposito dell’iniziativa di trasformare BTC City in “una vera Bitcoin City“, la società ha poi dichiarato di voler sviluppare un ecosistema che integrerà tecnologie avanzate basate non solo su blockchain, ma anche intelligenza artificiale, realtà virtuale, machine learning.

Questa iniziativa è parte del progetto Bitcoin City, sviluppato dalla società in collaborazione con il governo di Slovenia, Blockchain Alliance Europe, Blockchain Lab, Kenup Fondazione, del Consiglio Adriatico e STD Institute. L’obiettivo di questo progetto è sviluppare un ecosistema che migliori l’esperienza di visitatori, consumatori e partner del centro commerciale, attraverso l’integrazione di diversi progressi tecnologici, come la catena di blocchi, l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale e la realtà aumentata, tra gli altri. Tutto questo è collegato alle transazioni con criptovalute, che include l’inclusione di ATM all’avanguardia per facilitare la conversione della criptovaluta in denaro fiduciario.

Articolo originale di Gabriella Rocco  su https://smartmoney.startupitalia.eu/tecnologia/64560-20181024-slovenia-arriva-la-bitcoin-city

Babilonia fiscale: i Bitcoin meglio non dichiararli

Aggiornamento del 21 maggio 2018 – da Il Sole 24 Ore (leggi in fondo al presente articolo)

24 aprile 2018 – da Il Sole 24 Ore  – Coinlex

Alcuni giorni fa è uscito un nuovo parere dell’Agenzia delle Entrate (ricordando che vale esclusivamente per il richiedente e non è vincolante per lo stesso, ma solo per l’AF) in risposta ad un interpello ( 956.39/2018 ) di un privato cittadino che , dopo aver acquistato criptovalute nel 2013, le ha successivamente convertite in oro fisico e chiedeva in merito alla tassazione delle operazioni di cambio di bitcoin con euro e se l’acquisto dell’oro con i bitcoin generasse una plusvalenza fiscalmente rilevante.

Vi riporto l’articolo di commento scritto dall’amico dott. Capaccioli in cui si rilevano diverse incongruenze tra questo  parere e la nuova direttiva europea antiriciclaggio.

“Avvicinandosi la stagione dichiarativa, uno dei temi più controversi è l’indicazione nel quadro RW delle criptovalute. È di pochi giorni fa l’interpello (n. 956-39/2018) con cui le Entrate hanno affermato che le criptovalute «devono essere oggetto di comunicazione attraverso il quadro RW». Secondo l’Agenzia, il dato va indicato alla colonna 3 («codice individuazione bene») con il «14» («Altre attività estere di natura finanziaria»). Il controvalore in euro della valuta virtuale, invece, va determinato al 31 dicembre del periodo di riferimento, al cambio indicato a tale data sul sito dove il contribuente l’ha acquistata (si veda Il Sole 24 Ore del 21 aprile).
La risposta delle Entrate, però, non convince. Occorre partire dal fatto che, in base a quanto dispone l’articolo 4 del Dl 167/1990, il quadro RW del modello dichiarativo va compilato in caso di detenzione nel periodo d’imposta di «investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia».
La «chiave» esclude l’obbligo
Se, in qualche modo, rispetto alle norme sul monitoraggio fiscale, le criptovalute possono essere considerate – sotto il profilo oggettivo, attività di natura finanziaria – la questione va vista sotto il profilo territoriale, considerando che si deve trattare di «attività estere». Le criptovalute, infatti, sono a-territoriali, non stanno né in Italia né all’estero. Si può dire, in termini semplicistici, ma comunque fattuali, che le criptovalute stanno nella “rete” (di fatto, nella blockchain), per la quale non esiste né un concetto di “estero” né di territorio nazionale.
Si consideri ulteriormente la questione sotto il profilo sanzionatorio. La norma (articolo 5 del Dl 167/1990) stabilisce che la violazione dell’obbligo dichiarativo è punita con la sanzione dal 3 al 15% degli importi non indicati, penalità raddoppiata nel caso le attività siano detenute nei Paesi black list. Certamente si può sostenere che l’entità ordinaria della sanzione risulta quella dal 3 al 15% e che il “raddoppio” della stessa opera esclusivamente, come deroga, nella particolare ipotesi di detenzione delle attività nei Paesi a fiscalità privilegiata. Con la conseguenza che, non potendosi individuare la detenzione delle criptovalute – posta la loro a-territorialità – nei Paesi a fiscalità privilegiata (con l’ulteriore conseguenza dell’inapplicabilità della presunzione di cui all’articolo 12 del Dl 78/2009), si applicherebbe comunque, in caso di omessa indicazione dei coin, la penalità ordinaria dal 3 al 15% del valore non indicato (si tralascia la problematica della loro quantificazione).
Ma è evidente che si tratta, in ogni caso, di una conclusione forzata, posto che l’aspetto sanzionatorio risulta “naturalmente” collegato all’ubicazione territoriale delle attività, le quali devono risultare detenute all’estero, mentre le criptovalute, come si è detto, nella maggioranza dei casi non possono essere ritenute tali.
Si può così giungere alla conclusione che l’obbligo di indicazione nel quadro RW non sussista ogni qualvolta la persona fisica abbia la disponibilità della chiave privata, che rappresenta il “mezzo” attraverso il quale la stessa persona manifesta la volontà di disporre delle criptovalute.
«Custodi» esteri e RW 
Diverso potrebbe essere solo il caso in cui il contribuente residente non abbia la disponibilità della chiave privata e si avvalga dei cosiddetti custodial wallet. Occorre premettere che, diversamente da altre disposizioni del Dl 167/1990 in cui vengono richiamate talune norme in materia di antiriciclaggio (si pensi al richiamo ai cosiddetti exchanger di cui all’articolo 3, comma 5, lettera i, del Dlgs 231/2007, contenuto nell’articolo 1 del decreto sul monitoraggio fiscale), la norma esclude dall’obbligo dichiarativo del quadro RW le attività detenute all’estero qualora i redditi derivanti da tali attività vengano assoggettati a ritenuta o a imposta sostitutiva da parte di intermediari residenti. Cosa che, evidentemente, non avviene per le criptovalute.
Dal che se ne deduce che l’indicazione nel quadro RW può sussistere solo per le criptovalute per le quali le chiavi private sono gestite dal custodial wallet, se quest’ultimo risulta soggetto residente o domiciliato all’estero. L’indicazione non avrebbe senso, invece, per le criptovalute gestite attraverso custodial residenti in Italia, venendo a mancare ogni legame con l’estero (anche considerando il prossimo obbligo di iscrizione presso l’Oam dei soggetti operanti in criptovalute).
In definitiva, finché la questione non verrà regolata normativamente, sono queste le soluzioni che paiono più appropriate, nonostante il parere contrario delle Entrate.
L’indicazione senza Paese
Peraltro, la risposta all’interpello non affronta il problema dell’indicazione nel quadro RW del Paese estero. Risulterebbe un ossimoro, una sorta di “asset apolide”, la compilazione del quadro RW senza l’indicazione dello Stato estero.
L’esclusione dall’Ivafe 
Da ultimo, va rilevato che la risposta all’interpello afferma che la detenzione delle valute virtuali non è soggetta all’Ivafe, in quanto tale imposta va applicata soltanto ai depositi e conti correnti di “natura bancaria”.

In definitiva quindi, basta detenere le proprie criptovalute su un wallet di cui si possiedono le chiavi per non  essere soggetti a tassazione, nè all’obbligo di trascrizione sul quadro RW, come quando le valute straniere possedute siano tenute in cassaforte, e non presso istituti bancari esteri. 

Tra le altre ed oltre tutto, ecco cosa emerge in un altro articolo a firma di Dario Deotto:

“L’Agenzia, nella risposta all’interpello n. 956-39/2018, afferma che alle persone fisiche “private” che detengono criptovalute si applicano – ai fini della tassazione reddituale – le regole riguardanti le valute estere. Si conferma così un breve passaggio (si tratta di due righe del documento) della risoluzione 72/E/2016 delle Entrate.
Il fatto è, però, che l’assimilazione alle valute estere porta ad applicare tutta la disciplina prevista dagli articoli 67 e 68 del Tuir. La norma (in questo caso la lettera c-ter dell’articolo 67) ritiene espressiva di un’attività di investimento, con presunzione assoluta di legge – che non ammette prova contraria – il (semplice) prelievo delle valute estere da depositi e conti correnti.
Tale previsione è in parte attenuata dal successivo comma 1-ter dell’articolo 67, con il quale viene stabilito che le plusvalenze generate dalla cessione a titolo oneroso di valute estere derivanti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che – nel periodo d’imposta in cui esse sono realizzate – la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno 7 giorni lavorativi continui.
Il connubio di queste due previsioni, se applicate alle criptovalute, porta a conseguenze rilevanti.
Infatti, va considerato che è il semplice prelievo dal «deposito o conto corrente» che genera per presunzione assoluta di legge, seppure “edulcorata” dalla previsione del comma 1-ter, materia imponibile, che poi deve essere determinata con le regole del successivo articolo 68 (comma 6 e comma 7, lettera c). Tant’è che la risposta all’interpello afferma la rilevanza reddituale di ogni prelievo considerando l’insieme dei wallet detenuti dal contribuente, per i quali sia stata superata la giacenza media in euro di 51.645,69 per almeno 7 giorni lavorativi. E questo a prescindere dall’intento speculativo, ma anche per il semplice acquisto di un bene (nel caso dell’interpello si trattava dell’oro, ma potrebbe anche trattarsi, per assurdo, di una pizza).
Tutto ciò porta a delle conclusioni davvero irrazionali. Il fatto è che il wallet non può in alcun modo essere considerato «deposito o conto corrente».
L’errore sta però alla base: quello di assimilare le criptovalute alle valute estere. Il concetto di valuta ha sempre un collegamento con uno Stato o un gruppo di Stati, che non necessariamente la emettono, ma la riconoscono legalmente come mezzo di scambio.
Tutto ciò evidentemente non accade per le criptovalute, tant’è che anche la normativa antiriciclaggio interna (Dgls 231/2007) si affranca da una classificazione delle monete virtuali come valute estere, stabilendo che si tratta di rappresentazione di valore «non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale».
Così che il trattamento di eventuali plusvalenze derivanti da un loro impiego come strumento di investimento deve seguire altre strade. Una ipotetica è quella di considerare i coin «titoli non rappresentativi di merce» (lettera c-ter dell’articolo 67), tra i quali rientrano, ad esempio, le cambiali finanziarie e i certificati di deposito.
Il fatto è che nel concetto di «titoli non rappresentativi di merce» ricadono tutti quelli che non sono rappresentativi di una partecipazione al capitale o al patrimonio di un ente collettivo, ma occorre comunque che vi sia un emittente del titolo, cosa che non si avvera per le criptovalute.
Così, non potendosi inquadrare eventuali proventi tra i «redditi» di cui alla lettera c-quater dell’articolo 67 – che attiene i contratti derivati o altri contratti a termini di natura finanziaria – la soluzione più plausibile è che eventuali plusvalenze vengano assoggettate a tassazione come redditi diversi in base all’articolo 67, comma 1, lettera c-quinquies del Tuir, posta la funzione di “chiusura” di tale disposizione (circolare 165/E/1998) rispetto alle precedenti lettere c-ter e c-quater. Il problema è che questa conclusione comporta la non rilevanza reddituale di eventuali minusvalenze.”

Il che significa che anche volendo a tutti i costi considerare le criptovalute tassabili, assodato che generino “guadagni” nelle condizioni e nel periodo reddituale di cui sopra, al contrario non potrebbero essere annoverate come  detraibili a livello di tassazione, nel caso che alle stesse condizioni, generassero “perdite” .

Concludendo si conferma quindi quanto esposto nel titolo di questo mio intervento: le criptovalute non sono e non saranno per loro natura facilmente inquadrabili fiscalmente e quindi meglio astenersi dal dichiararle .

Altri eventuali approfondimenti li potete leggere QUI             

Aggiornamento del 21 maggio 2018 – da Il Sole 24 Ore

La tassazione dei bitcoin e i paradossi delle Entrate

di Dario Deotto e Paolo Luigi Burlone

Si è più volte cercato di rappresentare su queste pagine che la vagheggiata certezza del diritto è argomento buono “per le masse”; in realtà, il diritto è strutturalmente incerto per “natura”. Il diritto, peraltro, ha sempre rincorso la tecnica. È un po’ come la questione del doping e dell’antidoping: il primo è senz’altro più evoluto del secondo. Così è il rapporto tra diritto e tecnica: il diritto è, da sempre, destinato a rincorrere la tecnica. Si pensi alla questione delle criptovalute, alla quale si vorrebbero dare delle soluzioni utilizzando strumenti desueti, che non possono affatto cogliere l’essenza del fenomeno stesso.
In alcune occasioni, le Entrate hanno assimilato le operazioni legate alle criptovalute a quelle relative alle valute estere (si veda tra l’altro Il Sole 24 Ore del 23 aprile). Tuttavia, come si è già riportato, una valuta estera ha sempre un collegamento con uno Stato o con un gruppo di Stati, che non necessariamente la emettono, ma la riconoscono legalmente come mezzo di scambio.
Occorre poi considerare che l’unica norma di legge nazionale che ha regolato il fenomeno delle criptovalute è quella antiriciclaggio (Dlgs 231/2007), con la quale è stato stabilito che le valute virtuali consistono in una «rappresentazione digitale di valore non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente». Peraltro, nella recente V direttiva antiriciclaggio, ancora più chiaramente, viene affermato che le valute virtuali non possiedono «lo status giuridico di valuta o moneta». In sostanza, dalla normativa antiriciclaggio emerge la chiara incompatibilità tra il concetto di criptovaluta e quello di valuta estera.
Eppure, sotto il profilo reddituale si vorrebbero applicare alle criptovalute le regole di tassazione – per persone fisiche “private” – previste per le valute estere (lettera c-ter dell’articolo 67 del Tuir). In base a tale previsione, realizzano redditi diversi le plusvalenze relative a valute estere oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti. La norma fissa come presunzione assoluta di legge – che non ammette prova contraria – il (semplice) prelievo delle valute estere da depositi e conti correnti, ritenuto espressivo di capacità contributiva. A tal fine, andrebbe però considerato che, come più volte la Consulta ha stabilito, le presunzioni assolute in relazione ai tributi erariali risultano vietate (quindi sono incostituzionali), in quanto il contribuente deve avere la possibilità di fornire la prova contraria circa la propria “attitudine contributiva”. Ulteriormente andrebbe considerato che il concetto di “conto o deposito” non può essere esteso al wallet, il quale non memorizza né contiene criptovalute (non c’è alcun saldo); si tratta semplicemente di un software (o hardware) che crea e memorizza le chiavi private associate a quelle pubbliche.
Ancora, va rilevato che la norma (comma 1-ter dell’articolo 67) stabilisce che le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere derivanti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che, nel periodo d’imposta in cui esse sono realizzate, la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui. Se applicata alla criptovalute, si tratta di una disposizione che dimostra tutti i suoi limiti.
Basta fare un esempio. Si consideri il caso di Tizio che a inizio 2017 deteneva 6.200 ether (cambio di inizio periodo circa 7 euro cad.) e che li ha venduti a fine 2017 a 700 euro per ogni ether, incassando oltre 4 milioni di euro. Ebbene, considerando ether «valuta estera», si avrebbe che, utilizzando il “cambio” al 1° gennaio 2017, Tizio, pur realizzando una ingentissima plusvalenza, ne eviterebbe la tassazione.
Inoltre, in un contesto davvero “vivace”, va considerata la quasi impossibile applicazione del cambio vigente all’inizio del periodo d’imposta (articolo 67, comma 1-ter), per tutte quelle Ico sorte nel corso dell’anno: si pensi alle molte “nate” nel corso del 2017.
Questo conferma ulteriormente la inadeguatezza dell’interpretazione che vorrebbe assimilare il trattamento tributario delle criptovalute alle valute estere (contenuta tra l’altro nell’interpello 956-39/2018). Se fosse realmente così, la rincorsa del diritto alla tecnica sarebbe davvero tutta in salita.

Il Parlamento Europeo vota la fine dell’anonimato per il Bitcoin

Tratto da ITALIA OGGI – 19/04/2018 14:24

Regolamentazione più rigida sulle monete virtuali come il Bitcoin per evitare che siano utilizzate per il riciclaggio di denaro e il finanziamento al terrorismo.
parlamento Ue

I prestatori di servizi di cambio tra valute virtuali e valute legali e i prestatori di servizi di portafoglio digitale per le valute virtuali dovranno applicare, come già succede per le banche, controlli di due diligence e requisiti di verifica sulla propria clientela, per porre fine al regime di anonimato associato alle valute virtuali. Anche queste piattaforme e questi prestatori di servizi dovranno essere registrati, così come i cambiavalute e gli uffici di incasso degli assegni, nonché i fornitori di servizi per aziende e società fiduciarie.   Arriva con l’approvazione della quinta direttiva, da parte del parlamento europeo, la risposta Ue e la prima regolamentazione organica in tema di criptovalute. Ieri, infatti, il parlamento europeo ha approvato con 574 voti a favore, 13 voti contrari e 60 astensioni, in via definitiva la V direttiva antiriciclaggio, il provvedimento entrerà in vigore tre giorni dopo la pubblicazione nella gazzetta ufficiale dell’unione europea. Gli stati membri avranno successivamente, 18 mesi di tempo per trascrivere le nuove norme nelle rispettive legislazioni nazionali. Per l’Italia un lavoro in un certo senso semplificato, visto che molte novità

contenute nella direttiva sono già state regolamentate con l’approvazione della Quarta direttiva,in vigore in Italia con il dlgs 90/17 (nuova disciplina antiriciclaggio).

– Cristina Bartelli

COMMENTO:

Di fatto questo non cambia assolutamente nulla rispetto all’operatività dei cambiavalute più seri e professionali (tra cui anche il sottoscritto) che fin qui hanno operato  in un ambiente assolutamente non regolamentato e  proprio per questo, essendo totalmente indifesi, devono mettere in atto forme piuttosto arcigne di adeguata verifica del cliente ( spesso un semplice contatto on line attraverso chat o email)  per proteggersi da eventuali e possibili truffe, soprattutto per quanto riguarda i pagamenti on line in valuta fiat,  i quali, vale la pena ricordare, sono sempre reversibili fino a 180 gg  mentre i Bitcoin sono irreversibili come il denaro contante.

Ecco in questi casi, l’esempio di cosa viene richiesto, prima ancora di procedere alla transazione, al cliente che vuole acquistare Bitcoin o altre criptovalute  con metodi di pagamento digitali :

Selfie con documento di identità leggibile e foglio riportante una frase e la data odierna e  lo screenshot della pagina profilo titolare del mezzo di pagamento online con cui il cliente intende pagare. Ovviamente tutti i dati devono corrispondere.

Si tratterebbe quindi, per i suddetti cambiavalute, di capire  quali siano limiti e procedure di archiviazione dei dati dei clienti, ma  la normativa italiana non è stata attualmente completata dalla promulgazione di regolamenti attuativi rendendo così impossibile il recepimento  e la messa in vigore effettiva dell’intera normativa. 

C’è inoltre da sottolineare che , con tale  regolamentazione, il  cambiavalute virtuale, essendo soggetto primario responsabile di adeguata verifica sul cliente finale (dlgs 90/17 ), ricopre per obbligo di legge un ruolo attualmente svolto dagli istituti bancari, i quali pertanto non dovranno avere più alcuna ragione per rifiutare l’erogazione di servizi quali ad esempio l’apertura di conti correnti ( come avviene anche tutt’oggi) e permettere così agli operatori di esercitare liberamente la propria attività. 

Per concludere quindi, finchè tali regolamenti non saranno approvati e promulgati, la situazione sostanzialmente non cambia ed ognuno opera solo a propria esclusiva tutela. 

gavrilo

Niente panico, Bitcoin crash non è certo una novità

Liberamente tradotto da 

04/04/2018 –  C. Edward Kelso

Il primo trimestre del 2018 si è concluso confermandosi come il peggiore nella storia dei prezzi sul bitcoin. Poco meno di 115 miliardi di USD nella capitalizzazione di mercato sono andati persi e quasi la metà del suo valore dall’inizio di quest’anno è sparito. Per coloro che sono relativamente nuovi all’ecosistema, potrebbe sembrare il momento di andare nel panico o almeno di incassare ciò che resta degli investimenti iniziali. Ma , come cita un recente studio da parte degli aggregatori di informazioni finanziarie su howmuch.net, la criptovaluta più famosa al mondo potrebbe tornare presto in voga ed il recente crash del Bitcoin non è altro che un territorio familiare per i veterani che se ne occupano. Howmuch.net ha infatti recentemente pubblicato un monitoraggio dei peggiori crash dei prezzi del bitcoin intitolandolo: ” Visualizzazione della storia dei crash Bitcoin: gli hodlers sono pronti per la prossima risalita ?”, dove si cerca di mettere in prospettiva la natura ciclica della volatilità della valuta decentrata. “L’ultimo  Bitcoin crash ha convinto alcuni investitori a credere che la” fine dei giorni sia vicina”, ha iniziato l’autore del post, Paul. “Questo, nonostante  gli hodlers fiduciosi e gli operatori di settore   esprimano  la valutazione che invece ciò indichi solo che il mercato della criptovaluta potrebbe trovarsi di fronte a una nuova normalità. Così, se l’ultimo crash è stato doloroso, è meglio fare un passo indietro e valutare lo stato attuale del Bitcoin rispetto al suo passato. Il Bitcoin si è “schiantato” molte volte nel corso degli ultimi anni, ma come si sta comportando in questa ultima recessione rispetto al passato ? ”

Bitcoin’s Latest Crash is Nothing NewUtilizzando fonti pubblicamente disponibili, il post illustra una dozzina di altre volte in cui il bitcoin è caduto in picchiata. I sell-off sono racchiusi tra una scatola e un frammento di tempo. “Usando la coppia Bitstamp Bitcoin-to-US-Dollar (BTC / USD), il nostro team ha scoperto gli alti e bassi specifici dei precedenti crash risalendo fino a gennaio 2012. Utilizzando una freccia blu, abbiamo evidenziato la percentuale di valore perso durante ogni svendita. Infine, abbiamo misurato la durata di ciascun periodo di crash specifico contando il numero di giorni in cui la correzione è arrivata alla fine “, hanno spiegato. Ciò che è immediatamente chiaro è la resilienza del bitcoin. Sebbene un lettore possa facilmente vedere il grafico come una gigantesca bandiera rossa che mostra troppe correzioni pesanti e possa ritenere che la questione non ne valga la pena, gli entusiasti sono in grado di prendere coraggio perché “questo non è un evento insolito per Bitcoin. Da gennaio 2012, ci sono state tredici correzioni o arresti anomali in Bitcoin, inclusa l’ultima. Le perdite sono state minime del 30% e gravi fino all’ 87% durante questi periodi di panico. Rispetto ai suoi eventi passati, quest’ultima correzione non è stata nemmeno così severa o dolorosa come in passato. “Niente di nuovo finora quindi, la correzione attuale sembra in linea con la storia del bene preso in considerazione. Stando alle visualizzazioni mostrate, le correzioni di solito durano solo pochi giorni, con un grosso chunk in meno di quattro giorni. Ma, ci sono stati tratti più lunghi, di sicuro. Dalla fine del 2013 fino all’inizio del 2015 per esempio, e che ovviamente include tutto il 2014, il ritardo nel prezzo è durato 411 giorni. Il prossimo più lungo è il nostro attuale ultimo preso in considerazione, e non è neanche lontanamente vicino alle terribili difficoltà dei giorni a tre cifre. “Il punto è che i crash sono diventati relativamente comuni in tutto il mercato delle criptovalute, che è noto per la sua rapida volatilità. È importante rivolgersi ai dati e ai fatti in tempi di crisi, piuttosto che affidarsi alle proprie emozioni “, insiste la squadra. Potrebbe essere vero che i nuovi investitori della fine dell’anno scorso se ne sono andati e forse per sempre, ma probabilmente non avevano alcun business coinvolto nella criptovaluta in primo luogo. E mentre la serie attuale potrebbe benissimo andare avanti ancora per un po ‘, quelli appassionati di progetti inerenti il Bitcoin  sono per lo più a lungo termine, anticipano una corsa al rialzo o forse solo speranza in un minor numero di cadute di prezzo.

Smart Contracts: che cosa sono, come funzionano e dove si applicano

Quando si è iniziato a parlare di Smart Contract o di contratti intelligenti il primo pensiero e la prima semplificazione è stata quella di considerarli come una minaccia al lavoro di avvocati e notai. Ma non è affatto vero che la Blockchain o meglio, una delle dimensioni della Blockchain come gli Smart Contract sia destinata a mettere in discussione il lavoro degli studi legali o notarili. Certamente, come tutte le trasformazioni, imporrà un cambiamento, e certamente a queste figure professionali verrà chiesto di rivedere il proprio ruolo nella realizzazione di forme contrattuali fortemente innovative.

Ma per capire che tipo di cambiamento arriverà o sta arrivando con gli Smart Contract e quali settori saranno prima di altri interessati è importante capire di cosa si tratta.

SMART CONTRACT E BLOCKCHAIN

Gli Smart Contracts innanzitutto non sono una novità da associare necessariamente alla Blockchain. In effetti sono stati oggetto di sperimentazione già negli Anni ’90 e sono stati ideati ben prima, e hanno una loro specifica dimensione a prescindere dalla Blockchain. Certamente il fenomeno Blockchain ha permesso e sta permettendo di avere quelle garanzie di Trust, Fiducia, affidabilità e sicurezza che nel passato erano necessariamente delegate a una figura “terza”. Diciamo, come ultima premessa prima di entrare nel merito, che nello sviluppo e nella gestione di progetti Smart Contract appaiono oggi avvantaggi quelle realtà professionali che sanno coniugare una competenza sul profilo legale con solide competenze tecniche e di sviluppo.

Abbiamo detto che negli Anni ’90 le tecnologie hanno permesso di attuare forme di sperimentazione di Smart Contract, ma l’idea di contratto intelligente risale in realtà alla metà degli Anni ’70. Il termine adottato all’epoca non era quello di Smart Contract, ma il concetto era sostanzialmente quello che ha portato ai contratti intelligenti. All’epoca l’esigenza era molto semplice e atteneva alla necessità di gestire la attivazione o disattivazione di una licenza software in funzione di alcune condizioni molto semplici. La licenza di determinati software venne di fatto gestita da una chiave digitale che permetteva il funzionamento del software se il cliente aveva pagato la licenza e ne cessava il funzionamento alla data di scadenza del contratto. Semplicemente, in modo molto basico, era uno Smart Contract.

Dall’IoT (Internet delle Cose) i dati per gli Smart Contract

Uno Smart Contract è la “traduzione” o “trasposizione” in codice di un contratto in modo da verificare in automatico l’avverarsi di determinate condizioni (controllo di dati di base del contratto) e di autoeseguire in automatico azioni (o dare disposizione affinché si possano eseguire determinate azioni) nel momento in cui le condizioni determinate tra le parti sono raggiunte e verificate. In altre parole lo Smart Contract è basato su un codice che “legge” sia le clausole che sono state concordate sia la condizioni operative nelle quali devono verificarsi le condizioni concordate e si autoesegue automaticamente nel momento in cui i dati riferiti alle situazioni reali corrispondono ai dati riferiti alle condizioni e alle clausole concordate.

Semplificando lo Smart Contract ha bisogno di un supporto legale per la sua stesura, ma non ne ha bisogno per la sua verifica e per la sua attivazione. Eppure lo Smart Contract fa riferimento a degli standard di comportamento e di accesso a determinati servizi e viene messo a disposizione, accettato e implementato come forma di sviluppo di servizi tradizionali e senza che sia necessariamente espresso che si tratta di Smart Contract.

Assicurazioni: l’IoT sulle vetture dialoga con gli Smart Contract

Un esempio viene dal mondo delle assicurazioni per autoveicoli che sulla base di dati rilevati grazie ad apparecchiature Internet of Things a bordo delle vetture sono in grado di fornire dati sul comportamento del conducente che possono influire e creare determinate condizioni che attivano o disattivano clausole di vantaggio o svantaggio. Ad esempio il superamento di limiti di velocità determinati dal contratto possono essere lette come condizioni di maggior pericolo e determinare un cambiamento contrattuale delle condizioni applicate ad esempio nel valore del premio assicurativo.

Un altro esempio arriva dal mondo dei media dove con i Digital Rights Management viene gestita la erogazione e l’accesso a determinati servizi multimediali. Anche qui semplificando il concetto: si può ascoltare un determinato brano musicale o leggere un libro o assistere a uno spettacolo solo se la scelta effettuate corrisponde al valore collegato al servizio acquistato. Laddove si abbia scelto un servizio a tempo se ci sono le condizioni contrattuali stabilite. Ma se si cerca di ascoltare il brano quando il tempo è scaduto è uno smart contract che impedisce l’accesso ed è sempre uno smart contract che propone magari un nuovo smart contract a condizioni di particolare favore purché la scelta venga effettuata entro un certo tempo o magari da uno specifico device. O magari, ancora, se si “porta” un amico. Tutte condizioni che sono verificate, eseguite e implementate da uno smart contract senza intervento umano.

Big Data e Data Science per Smart Contract

E proprio perché l’assenza di un intervento umano corrisponde anche all’assenza di un contributo interpretativo lo Smart Contract deve essere basato su descrizioni estremamente precise per tutte le circostanze, tutte le condizioni e tutte le situazioni che devono essere considerate. Ecco che la gestione dei dati e dei Big Data in particolare diventa un fattore critico essenziale per stabilire la qualità dello Smart Contract.

Nello stesso tempo per gli Smart Contract è fondamentale definire in modo estremante preciso le fonti di dati alle quali il contratto è chiamati ad attenersi. Gli Smart Contract sono chiamati a ricevere dati e informazioni da soggetti che vengono definite e certificate dalle parti nel contratto stesso e che devono essere individuate, controllate lette e interpretate dallo Smart Contract sulla base di precise regole che a loro volta rappresentano una delle parti più rilevanti e strategiche del contratto che determinano ovviamente l’output finale.

E qui viene il punto più rilevante relativo alle differenze sostanziali tra contratto tradizionale e Smart Contract. Lo Smart Contract è di fatto “figlio” dell’esecuzione di un codice da parte di un computer. E’ un programma che elabora in modo deterministico (con identici risultati a fronte di identiche condizioni) le informazioni che vengono raccolte. In altre parole se gli input sono gli stessi i risultati saranno identici. Questo punto è estremamente rilevante perché se da una parte rappresenta una certezza e una sicurezza in quanto garantisce alle parti una assoluta “certezza di giudizio oggettivo” escludendo qualsiasi forma di interpretazione, dall’altra sposta sul codice, sulla programmazione, sullo sviluppo il peso e la responsabilità o anche il potere di decidere.

Ai contraenti spetta il compito di definire condizioni e clausole e modalità e regole di controllo e azione, ma una volta che il loro contratto è diventato codice e dunque uno smart contract e i contraenti lo accettano ecco che gli effetti non dipendono più dalla loro volontà.

Per portare fiducia negli Smart Contract serve la Blockchain

Ed ecco che il tema della fiducia si sposta, esce dallo studio legale per entrare nel terreno dello sviluppatore. Se lo Smart Contract è chiamato a fare bene il suo lavoro, deve fornire una serie di garanzie a tutte le parti coinvolte e primariamente a questo punto della nostra analisi lo Smart Contract deve garantire che il codice con cui è stato scritto non possa essere modificato, che le fonti di dati che determinano le condizioni di applicazione siano certificati e affidabili, che le modalità di lettura e controllo di queste fonti sia a sua volta certificato.
La licenza Cloud per le applicazioni destinate al pagamento delle fatture di una azienda non può essere disabilitata per un errore nella quantità di transazioni oggetto del contratto o nella data di scadenza del servizio o ancora perché non è arrivata la conferma di avvenuto pagamento presso la banca.

In altre parole lo Smart Contract deve essere preciso sia nella sua stesura sia nella gestione delle regole che ne determinano l’applicazione e delle regole che devono governarne le eventuali anomalie.

E si arriva, con questo passaggio al tema della fiducia. Nei contratti tradizionali il valore della fiducia viene corrisposto e garantito da una figura terza, tipicamente un avvocato o un notaio. Si tratta di figure che continuano ad essere coinvolte, anche se in modalità diverse. Resta sempre necessaria la figura di un intermediario che dialoga con le parti e che naturalmente viene retribuito per i suoi servizi. Anche per questo ruolo sono state individuate delle soluzioni alternative al ruolo delle persone fisiche.

Ad esempio all’interno di situazioni chiaramente definite come possono essere le filiere produttive costituite da diverse imprese sono stati sperimentati e sono oggi attivi Smart Contracts la cui stesura e la cui implementazione attengono alle regole organizzative definite tra le imprese. In questi contesti in particolare il ruolo della “terza parte” intesa come fiduciario viene reinterpretata dall’utilizzo della Blockchain. Nell’Industria 4.0, nella Smart Agrifood, nei progetti di Smart Logistics basati sulla diffusione di apparati Internet of Things, il controllo sul conferimento di determinate materie prime, sulla loro qualità e quantità viene già oggi gestito con Smart Contracts che hanno anche il compito di attuare, in automatico, nel rispetto delle logiche Industry 4.0, delle azioni corrispondenti.

Agli albori: contratti intelligenti alla ricerca di IoT e Big Data

Tornando alla storia degli Smart Contract va ricordato che uno dei primi a effettuare sperimentazioni e a coniare il nome stesso fu Nick Szabo, un esperto di crittografia americano di origine ungheresi che grazie alla passione per la Data Science iniziò a ipotizzare già nel 1993, quando ancora non si parlava di Internet of Things e di Big Data che determinati oggetti potevano essere gestiti in modo digitale in funzione di determinate condizioni. Un sistema di produzione in una impresa poteva modificare il proprio comportamento in funzione degli ordinativi presenti da mandare in lavorazione. Il codice alla base di quell’idea di Smart Contract leggeva le condizioni legate agli ordinativi e attivava le macchine necessarie per sostenere la produzione. Nick Szabo volle anche spiegare e divulgare le sue teorie e le sue idee in merito con “Smart Contracts: Building Blocks for Digital Free Markets” una pubblicazione che vide la luce nel 1996 e che in qualche modo ha rappresentato una delle basi “logiche” del moderno commercio elettronico.

Credits to www.blockchain4innovation.it

In Italia il Bitcoin si ammazza con la burocrazia, come le imprese…

Non è una novità, già si sapeva, ma tutta questa fretta di monitorare e regolamentare ciò di cui nessuno sente il bisogno e che per giunta possiede già le sue regole scritte in un algoritmo matematico, non è solo inopportuna, ma anche sospetta. Quale bisogno ed urgenza infatti abbia il Ministero  dell’Economia e delle Finanze italiano   di indire   consultazione pubblica fino al 16 febbraio 2018 prima di emettere un decreto che , visto le elezioni incombenti nemmeno due settimane dopo e le tempistiche di insediamento di un nuovo governo che chissà, se e quando vedrà la luce ( e se sarà interessato a normare tale ambito), suscita molti dubbi ed alcune certezze.  Dubbi su opportunitò, tempistiche, utilità ed efficacia di un tale strumento normativo (per ora solo bozza di decreto), e la certezza che in Italia la burocrazia è il mostro vessatorio e liberticida che reprime il raggiungimento del legittimo benessere economico di imprese e cittadini. Mi piacerebbe infatti che i favolosi burocrati del Ministero spiegassero per quale motivo e quale vantaggio si dovrebbe avere ad autodenunciarsi come prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, far censire il fenomeno e far attuare eventuali indagini per casi di riciclaggio di denaro o altri illeciti, posto come detto e ripetuto che bitcoin e criptovalute, proprio per loro caratteristiche peculiari, non si prestano affatto ad essere comodi strumenti di riciclaggio o di finanziamento al terrorismo. Ma evidentemente e come spiegato più volte su questo blog normare serve a riportare nelle mani di pochi quel potere finanziario e valutario che il bitcoin ha distribuito liberamente nelle mani di tutti.

Per questo motivo già  il decreto legislativo numero 90 del 25 maggio 2017 e l’introduzione della figura del cambiavalute virtuale (già la definizione è di per se ridicola), soggetto primario e responsabile di controlli antiriciclaggio, di per sè va contro alle chiare parole espresse da Mario Draghi come presidente della Banca Centrale Europea in relazione alla possibilità che Stati aderenti alla moneta unica Euro possano legiferare su valute (virtuali, criptate e non) in mancanza di direttive europee specifiche sull’argomento.

Adesso, invece di occuparsi degli sprechi delle pubbliche amministrazioni e della sovrabbondanza deleteria e dispendiosa per le tasche dei cittadini italiani, di nullafacenti impiegati statali ( il Ministero delle Finanze è uno degli esempi più fulgidi e pregni), si vuole che il cittadino , collezionista di criptovalute o l’azienda che accetta pagamenti in Bitcoin , si autodenunciasse, comunicasse tali attività via PEC ( ma sono obbligato come privato cittadino ad averla??) e ci si iscrivesse in un apposito registro OAM allo scopo di favorire eventuali indagini della Guardia di Finanza e Polizia Postale  e domani sicuramente della Agenzia delle Entrate. Definire tutto ciò terrorismo fiscale degno delle migliori dittature stataliste è , secondo  parere diffuso,  persino banale.

Ancora non si vuole imparare copiando i migliori esempi, visto anche la difficoltà intrinseca che le criptovalute presentano ad essere associate effettivamente al loro proprietario, incentivando invece epiuttosto una pacifica emersione del fenomeno e quindi il suo sviluppo tecnologico e la sua diffusione. Basterebbe infatti assicurare gli operatori rispetto alla possibilità di  lavorare supportati dal sistema bancario, invece del contrario come succede oggi grazie anche a circolari emesse dalla Banca d’Italia negli anni precedenti. Le banche dovrebbero infatti essere obbligate da tale decreto a fornire strumenti adeguati agli operatori che svolgeranno il lavoro  al loro posto, quello dei controlli antiriciclaggio. Non solo ed invece di comunicazioni, registrazioni, utilizzo di PEC e perdite di tempo accessorie, molto banalmente basterebbe aggiungere un riquadro specifico nei moduli di dichiarazione dei redditi di privati e imprese per raggiungere il medesimo risultato che il legislatore si propone, quello di monitorare il fenomeno.  Tutto ciò e moltro altro si evince dall’articolo qui sotto di Cointelegraph che qui sotto vi riporto.

Come sempre, buona lettura!!

Seminario Criptovalute in CCIIAA a Udine e la strana voglia di regole

Venerdi pomeriggio scorso, 23 febbraio 2018,  c’è stato (finalmente) un seminario su criptovalute e Blockchain presso una sala, troppo piccola per l’occasione,  della sede della Camera di Commercio di Udine  . L’iniziativa è stata molto apprezzata dai partecipanti accorsi numerosi, come riportato dal comunicato stampa della CCIIAA qui sotto, e gli interventi dei relatori forse un po’ troppo tecnici per il pubblico variegato presente .  Non entro troppo nei particolari anche perchè potete seguire tutta l’iniziativa direttamente dal video youtube a fondo pagina e farvi la vostra opinione, e un doveroso ringraziamento va ai relatori, preparati e sufficientemente esaustivi per il contesto, ma ci terrei a sottolineare alcune cose che ho riscontrato e le riflessioni fatte, anche dopo aver letto oggi un interessante articolo su un blog .

Perchè anche durante questo seminario i professori e “gli esperti” hanno insistito sul pericolo di criminalità legata all’uso delle criptovalute e  sulla necessità di creare  leggi su qualcosa che ha già le regole infallibili  e necessarie  scritte in un algoritmo matematico?

E’ ormai chiaro che a quasi 10 anni dalla loro invenzione ( il libro bianco di Satoshi Nakamoto viene pubblicato nell’ottobre del 2008) Bitcoin , Blockchain e 1500 criptovalute sul mercato oggi, con un valore complessivo pari a quello del PIL dell’Olanda, non possono essere più ignorate dalle istituzioni a qualsiasi livello e, visto che la gente comune se n’è accorta già da un po’ e sta cominciando ad utilizzarle  sempre di più , si cerca in qualche modo di correre ai ripari, anche se magari pochi si rendono conto che nulla sarà come prima e che ormai siamo entrati in una fase 3.0 di sviluppo tecnologico generale.  Si consideri quindi il Bitcoin come la prima manifestazione di questo nuovo sviluppo tecnologico con le  3 caratteristiche fondamentali:

  • E’ DECENTRALIZZATO
  • E’ FEDERATO
  • E’ IPER-RESILIENTE

Essendo decentralizzato, non ha e non richiede un potere centrale  che lo governi (una disintermediazione mortale per chi è abituato a trarre vantaggi enormi dal signoraggio e dalla sua posizione di regolatore) , ma necessita  di essere federato per sfruttare tutta l’enorme potenza di calcolo sommata dei dispositivi degli utenti che usano le nuove applicazioni e, come abbiamo notato in questi anni ,  soprattutto nell’ultima ondata speculativa dello scorso dicembre/gennaio, è iper resiliente . Significa che il numero di utenti detti “early users”, i quali non smetteranno MAI di prestare la loro opera per tenere in piedi la rete, e’ superiore a quello sufficiente per tenere in piedi la rete (nel caso di bitcoin il numero e’ sovrabbondante). I dark market sono piu’ che sufficienti, in termini di cash flow, per tenere in piedi sia il mining che il trading. Potete fare speculazioni e far andare su e giu’ il valore quanto volete, ma tanto la rete non cade.

“Chiaramente, della terza caratteristica “i maghi della finanza” non avevano idea, e ce l’hanno ora: ci hanno rimesso un sacco di soldi in questa ultima  speculazione (per la semplice ragione che nessun exchanger ufficiale aveva abbastanza cash da farli vendere Bitcoin al ritmo che si illudevano di tenere), per cui quando hanno causato il ribasso artificiale del valore, non sono riusciti a sbarazzarsene abbastanza in fretta: traders ed exchangers hanno dato forfait. Del resto, il gioco di questi signori e’ di fare scalping su un prezzo,essendo quelli che decidono il prezzo” E con il  Bitcoin  non possono, così gli è andata buca per l’ennesima volta!

Adesso ovviamente metteranno in scena tutti i trucchi del caso. Siccome possiedono i giornali e i media, inizieranno con la propaganda.

E quindi si ripete lo schema già usato per le BBS degli ultimi anni ottanta, per l’internet dei primi anni novanta ed anche per il web 2.0 (quello dei social network come facebook, twitter ecc): cercano di denigrare e infangare dicendo:

  • Che ci  sono i maniaci sessuali e i pedofili.
  • Che ci sono i mafiosi e i delinquenti.
  • Che ci sono i terroristi.
  • Che ci sono gli evasori fiscali.
  • Che fa male ai giovani.

Tra 5- 10 anni useremo tutti dei servizi decentralizzati e federati. Questo produrra’ la caduta di alcune grandi aziende e la nascita di altre star, cioe’ quelli che creano i servizi e riescono a farci i soldi con un modello di business legato al client, o legato alla criptomoneta, o legato alla mediazione, come capita su OpenBazaar, ove gli arbitri hanno una percentuale sulle transazioni (e un rischio nella mediazione dei conflitti). O magari nasceranno altri modelli di business, ma la cosa certa e’ che , come e’ sempre successo, non saranno le chiacchiere , la diffamazione ed il terrorismo mediatico a fermare una nuova onda di applicazioni “disruptive”.

Perche’ alla fine le criptomonete , che vi piaccia o meno, sono arrivate e resteranno.

Anche tutta questa voglia di regolarle (BEN PRESENTE AL SEMINARIO DI CUI STIAMO PARLANDO) non cambia niente, e non puo’ cambiare niente. Chi sta operando contro questa rivoluzione già in atto lo fa in modo da ottenerne la “regolazione”, cioe’ vuole che ci siano leggi ad hoc. Queste leggi, guarda caso, cercheranno di portare queste tecnologie nelle mani di pochi. Quindi tutti vogliono “regolare le criptomonete”: queste persone pero’ stanno fallendo nell’indicare le leggi, nel dire come dovrebbero essere queste leggi, per una semplice ragione:

in Germania ci sono circa 68 milioni di cellulari smart che hanno almeno una CPU con 4 core. Se domani per fermare una qualche applicazione diffusissima si dovesse fare una legge che obbliga a centralizzare, chi diavolo costruisce un data center con la potenza equivalente di 272 milioni di core, 136Exabyte di Ram, e 544Exabyte di storage? Tralasciamo la fattibilita’, ma chi paga per il mostro?

Se chi fa un software decentralizzato decide di essere stronzo e di usare perbene le risorse del cellulare, centralizzare una simile potenza di calcolo non e’ possibile. Certo, sicuramente questi software non useranno il 100% delle risorse dei cellulari. Ma anche usandone una frazione, le cifre in gioco sono cosi’ alte che nessuno potrebbe sostituire la potenza in gioco con un server centrale. Se oggi volessimo costruire un datacenter che assommi tutta la potenza a disposizione di Bitcoin solo contando thin clients, nodi e supernodi (e non voglio nominare i miners con macchine dedicate), saremmo nella top500 di sicuro, e forse nella top100 dei supercomputer. Chi paga?

Per questa ragione, tutti stanno invocando il regolatore, ma nessuno riesce a dire in che modo centralizzare questa roba per farci i soldi. Queste tecnologie non sono difficili da centralizzare per via del design (qualcuno si illude di poterle centralizzare facendo delle modifiche al software), ma sono difficili da centralizzare perche’ sfruttano la potenza dei client, che sono troppi. La potenza di calcolo oggi e’ sbilanciata verso gli utenti in maniera mostruosa: e contro questo fatto fisico c’e’ davvero poco che il programmatore possa farci. Chi sviluppa un’applicazione decentralizzata e federata ha a disposizione potenze di calcolo inarrivabili.

Questo vi spiega anche per quale ragione Facebook, Twitter , Amazon, e tutti quanti si siano uniti nella guerra contro bitcoin: di per se’ il Web 3.0 suona per loro la campana a morto.

(la parte in corsivo è tratta  da un articolo del  blog  Böse Büro  keinpfusch.net,  che invito tutti a leggere integralmente QUI)

BITCOIN REGULATION – LE LOBBY FINANZIARIE AFFILANO LE UNGHIE

Gli ultimi attacchi hacker e le ingenti perdite di criptovalute su mercati non regolamentati quali sono oggi le piattaforme exchanger, insieme all’aumento generale del valore di mercato di questo settore che dopo esser passato dagli oltre 800 miliardi di dollari di dicembre scorso ai 400 miliardi di controvalore attuali destando l’interesse non solo degli investitori a livello globale, ma anche quello dei regolatori mondiali che pare si siano fissati nell’indicare il 2018 come l’anno della regolamentazione per il mondo delle criptovalute. Insomma, la torta è veramente appetitosa e ci devono mettere le grinfie sopra a qualsiasi costo, anche se personalmente dubito, per la natura stessa delle criptovalute, che  ci riescano in modo efficace.

E’ in questo contesto che si inquadrano due freschi interventi a tal proposito. Il primo di cui vi riporto è di Christine Lagarde, capo del Fondo Monetario Internazionale, che ha dichiarato che l’azione normativa internazionale sulle criptovalute è “inevitabile”. Lagarde, che è l’amministratore delegato dell’organizzazione internazionale che mira a promuovere la stabilità finanziaria globale, ha affermato che le preoccupazioni del FMI sulle criptovalute derivano in gran parte dal loro potenziale uso in attività finanziarie illecite. In un’intervista rilasciata a CNNMoney l’11 febbraio, ha affermato: “Stiamo attivamente contrastando il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, e ciò rafforza la nostra determinazione a lavorare su queste due direzioni”. Lagarde ha inoltre spiegato che la direzione normativa dovrebbe essere basata sulle attività di scambio, concentrandosi su “chi sta facendo cosa, e se sono adeguatamente autorizzati e supervisionati”. Mentre i nuovi commenti sono in gran parte in linea con le già pubbliche vedute di Lagarde sulla criptovaluta, indicano che il FMI potrebbe muoversi per essere più attivamente coinvolto nella prevenzione dell’uso illecito della suddetta. In più occasioni, Lagarde ha precedentemente avvertito che le criptovalute dovrebbero essere prese sul serio e ha richiesto la cooperazione tra i regolatori di tutto il mondo. E lei non è la sola a esprimere preoccupazioni sull’uso della criptovaluta nei crimini finanziari transfrontalieri. Secondo un precedente rapporto di CoinDesk, durante il Forum economico mondiale di Davos a fine gennaio, diversi leader mondiali hanno condiviso lo stesso sentimento, tra cui il primo ministro britannico Theresa May, il presidente francese Emmanuel Macron e il segretario del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin. E, proprio la scorsa settimana, alti funzionari di Francia e Germania hanno chiesto al gruppo di nazioni del G20 di discutere di un’azione cooperativa sulle criptovalute in vista di un vertice il prossimo mese.

Il secondo intervento  proviene da tre regolatori europei con controllo su titoli,  banche e  pensioni che hanno emesso oggi un avvertimento congiunto ai residenti della UE intenzionati ad investire in criptovalute. Citando la volatilità dei mercati crittografici, la mancanza di regolamentazione e il potenziale di gravi perdite, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA), l’Autorità bancaria europea (EBA) e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (EIOPA) hanno scritto una breve nota agli investitori sugli “alti rischi di acquistare e / o detenere le cosiddette valute virtuali”. Collettivamente denominate (ESA), le autorità europee di vigilanza  affermano l’ esistenza di un “alto rischio” che gli investitori possano perdere tutti i loro fondi se scelgono di investire in criptovalute, specificando che esiste attualmente una bolla apparente nei mercati . Hanno continuato, scrivendo: “Le VC (valute virtuali) e gli exchanger in cui i consumatori possono effettuare scambi di criptovalute non sono regolamentati dal diritto comunitario, il che significa che i consumatori che acquistano VC non beneficiano di alcuna protezione associata ai servizi finanziari regolamentati. Essendo fuori dal mercato regolamentato, per  i consumatori a cui sono stati rubati i soldi perché il loro conto VC è stato soggetto ad un attacco informatico, non esiste una legge dell’UE che copra le loro perdite “. L’avvertimento menziona esplicitamente bitcoin, ethereum, litecoin e XRP, notando inoltre che altre criptovalute vengono spesso vendute senza alcuna informazione che spieghi il loro background o i rischi nell’acquisto. Parte del rischio, afferma l’ESA, deriva dalla difficoltà di acquistare o vendere criptovalute a causa di ritardi nelle transazioni. Gli utenti possono acquistare una certa quantità di criptovaluta a un prezzo specifico, ma la congestione della rete significa che potrebbero ricevere una quantità inferiore a un prezzo più alto. Per i residenti che vogliono ancora investire in criptovalute, la nota raccomanda di comprendere le caratteristiche del token venduto e di non investire più di quanto ci si possa permettere di perdere. Inoltre, gli utenti dovrebbero adottare misure per mantenere sicuri i loro portafogli digitali. L’avvertimento arriva dai crescenti rumors all’interno dell’UE sul mercato di criptovalute, i suoi rischi percepiti e la sua potenziale regolamentazione. L’ESMA ha dichiarato la scorsa settimana che le criptovalute saranno una delle sue massime priorità nel 2018, mentre un giorno dopo, alti funzionari di Francia e Germania hanno chiesto al gruppo di nazioni G20 di discutere l’azione cooperativa sulle criptovalute in vista di un vertice il prossimo mese. Allo stesso tempo, il membro del consiglio di amministrazione della Banca centrale europea (BCE) Yves Mersch ha espresso preoccupazione sull’apparente “corsa all’oro” nei mercati cripto, aggiungendo che una soluzione normativa potrebbe essere quella di forzare gli exchangers non regolamentati a segnalare le transazioni.

NANI E CRIPTOBALLERINE – STORIA DEL PRIMO EXCHANGER-CRACK ITALIANO

Nell’ultimo articolo da me pubblicato ho riportato un ingente furto avvenuto nemmeno 15 giorni fa sulla piattaforma giapponese Coincheck per un controvalore di  58 miliardi di yen (pari a 530 milioni di dollari), come una delle cause del calo di  quotazione del Bitcoin a cui abbiamo appena assistito. Queste situazioni non sono certo una rarità, anzi  sono per lo più comuni nel mondo delle criptovalute ed è una delle ragioni per cui molti preferiscono affidarsi a cambiavalute privati, ma affidabili, piuttosto che a piattaforme exchanger di cui non si sa nulla se non che i vostri denari non sono assolutamente assicurati e che questi mercati sul web non hanno alcun requisito che li accomuni a Banche, società finanziarie o Assicurazioni. Il mio consiglio è sempre quello di possedere un wallet proprietario dove conservare le criptovalute (vedi qui il tutorial su come scegliere quello giusto e sicuro) e di lasciare soldi e criptovalute il meno tempo possibile sulle piattaforme exchanger, qualora voleste usarle. Buona lettura

Da Il sole24ore – 10/02/2018

Un furto da 17 milioni di Nano (circa 195milioni di dollari) è stato denunciato dalla piattaforma di scambio italiana Bitgrail Srl. Un ammanco pesante, che pone ancora volta seri dubbi sull’intero mondo delle criptovalute. La notizia è stata diffusa proprio da Bitgrail, che con una nota sul suo sito postata alle 21.30 di sabato 9 febbraio, ha raccontato l’accaduto: «da controlli di verifica interna di congruità delle operazioni di prelievo – è scritto – sono emerse delle transazioni non autorizzate che hanno portato ad un ammanco di 17 milioni di Nano costituenti parte dei portafogli gestiti da Bitgrail S.r.l. Per l’attività fraudolenta di cui sopra, è stata presentata in data odierna regolare denuncia querela presso le autorità di polizia competente e le indagini di polizia sono in corso. Si informa che le altre valute depositate non sono state interessate dai prelievi non autorizzati».

Al momento del furto, la criptovaluta Nano valeva circa 11,5 dollari. Ma dopo la notizia dell’operazione fraudolenta, il valore è sceso fino a toccare 8,25 dollari. Dopo la denuncia, Bitgrail ha interrotto ogni operazione di scambio: «Per effettuare ulteriori accertamenti su quanto avvenuto, in via cautelativa ed a tutela degli utenti verranno temporaneamente sospese tutte le funzionalità del sito, ivi compresi i prelievi ed i depositi» è scritto nella nota della società.

Chi c’è dietro Bitgrail
BitGrail è una Srl con sede a Firenze che si occupa di Webcoin Solution. Una piattaforma di scambio per criptovalute come molte altre in giro per il mondo. L’amministratore della società è il trentunenne Francesco Firano, che nelle ultime ore è accusato da molti utenti su Reddit e su Bitcointalk per quanto successo con la criptovaluta Nano. Accuse alle quali Firano (il cui account è TheBomber9 su Reddit e TheBomber999 su Bitcointalk) ribatte colpo su colpo.

La posizione del team Nano
Intanto su Medium, una nota a firma di Nano Core Team, racconta l’accaduto: «L’8 febbraio 2018 il team Nano Core è stato informato da Francesco “The Bomber” Firano – proprietario e gestore della borsa BitGrail – di una perdita del portafoglio BitGrail. Il nostro team ha prontamente contattato le forze dell’ordine e stiamo collaborando pienamente su questo tema. Dalla nostra indagine preliminare non è emersa alcuna doppia spesa nel libro mastro e non abbiamo motivo di credere che la perdita sia dovuta a un problema nel protocollo Nano. I problemi sembrano essere legati al software di BitGrail». Quelli di Nano scrivono che prima dell’8 febbraio non avevano conoscenza dell’insolvenza di BitGrail. E aggiungono che nella conversazione, Firano ha chiesto loro di modificare il libro mastro per coprire le sue perdite: «una direzione che non avremmo mai perseguito».

«BitGrail – è scritto ancora nella nota – è un’azienda indipendente e Nano non è responsabile del modo in cui Firano o BitGrail conducono la loro attività. Non abbiamo alcuna visibilità nell’organizzazione BitGrail, né abbiamo il controllo sul loro funzionamento. Abbiamo ora sufficienti motivi per credere che Firano abbia ingannato il Nano Core Team e la comunità riguardo alla solvibilità dello scambio BitGrail per un significativo periodo di tempo. Non risponderemo alle accuse di Firano in merito a questa situazione. Stiamo preparando tutte le informazioni di cui disponiamo su questo tema per presentarle alle forze dell’ordine».

Cos’è Nano
Nano è una criptovaluta che allo stato attuale ha un marketcap da un miliardo e 89 milioni di euro. È al 23esimo posto per capitalizzazione di mercato nella classifica di Coinmarketcap (ma in passato è stata nella top venti). Ha un’architettura block-lattice, che consente a ciascun utente di avere la propria blockchain ed aggiornarla senza essere sincronizzata rispetto al resto della rete.

La difesa di Firano
Intanto Francesco Firano non ci sta, e si difende, spiegando al Sole24ORE la sua versione dei fatti: «Ci siamo resi conto dell’ammanco – racconta l’amministratore di BitGrail – durante uno degli spostamenti di coin che facciamo periodicamente. E subito dopo abbiamo contattato lo sviluppatore di Nano, facendo presente il problema e sottolineando – al tempo stesso – alcune incongruenze nel loro software che non ci aiutano a capire neanche quando è avvenuto il furto».

Firano spiega di aver chiesto personalmente «un’operazione di fork, con l’intento di risanare le perdite degli utenti, non per insabbiare l’accaduto come hanno scritto gli sviluppatori della moneta nel loro comunicato. Le loro accuse nei miei confronti sono pesanti. E devo dire che mi hanno messo in serio pericolo. In questa storia, del resto, ci sono persone che hanno perso molti soldi». Il trentunenne fiorentino racconta di come il suo account Twitter sia preso d’assalto da utenti di mezzo mondo: «È pieno di minacce di morte nei miei confronti, qualcuno ha pubblicato anche l’indirizzo di casa mia. È una situazione abbastanza paradossale, creata dal comunicato ufficiale diramato dagli sviluppatori di Nano». E adesso cosa succede? «Abbiamo presentato denuncia alla Polizia Postale, – aggiunge Firano – fornendo anche gli indirizzi (mail comprese) sui quali questi coin mancanti sono finiti. Adesso c’è un’indagine in corso e mi auguro che si faccia luce al più presto su quanto accaduto».

CATENA FIDE DIGNORUM AD NIHILUM CONEXA .