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Babilonia fiscale: i Bitcoin meglio non dichiararli

Aggiornamento del 21 maggio 2018 – da Il Sole 24 Ore (leggi in fondo al presente articolo)

24 aprile 2018 – da Il Sole 24 Ore  – Coinlex

Alcuni giorni fa è uscito un nuovo parere dell’Agenzia delle Entrate (ricordando che vale esclusivamente per il richiedente e non è vincolante per lo stesso, ma solo per l’AF) in risposta ad un interpello ( 956.39/2018 ) di un privato cittadino che , dopo aver acquistato criptovalute nel 2013, le ha successivamente convertite in oro fisico e chiedeva in merito alla tassazione delle operazioni di cambio di bitcoin con euro e se l’acquisto dell’oro con i bitcoin generasse una plusvalenza fiscalmente rilevante.

Vi riporto l’articolo di commento scritto dall’amico dott. Capaccioli in cui si rilevano diverse incongruenze tra questo  parere e la nuova direttiva europea antiriciclaggio.

“Avvicinandosi la stagione dichiarativa, uno dei temi più controversi è l’indicazione nel quadro RW delle criptovalute. È di pochi giorni fa l’interpello (n. 956-39/2018) con cui le Entrate hanno affermato che le criptovalute «devono essere oggetto di comunicazione attraverso il quadro RW». Secondo l’Agenzia, il dato va indicato alla colonna 3 («codice individuazione bene») con il «14» («Altre attività estere di natura finanziaria»). Il controvalore in euro della valuta virtuale, invece, va determinato al 31 dicembre del periodo di riferimento, al cambio indicato a tale data sul sito dove il contribuente l’ha acquistata (si veda Il Sole 24 Ore del 21 aprile).
La risposta delle Entrate, però, non convince. Occorre partire dal fatto che, in base a quanto dispone l’articolo 4 del Dl 167/1990, il quadro RW del modello dichiarativo va compilato in caso di detenzione nel periodo d’imposta di «investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia».
La «chiave» esclude l’obbligo
Se, in qualche modo, rispetto alle norme sul monitoraggio fiscale, le criptovalute possono essere considerate – sotto il profilo oggettivo, attività di natura finanziaria – la questione va vista sotto il profilo territoriale, considerando che si deve trattare di «attività estere». Le criptovalute, infatti, sono a-territoriali, non stanno né in Italia né all’estero. Si può dire, in termini semplicistici, ma comunque fattuali, che le criptovalute stanno nella “rete” (di fatto, nella blockchain), per la quale non esiste né un concetto di “estero” né di territorio nazionale.
Si consideri ulteriormente la questione sotto il profilo sanzionatorio. La norma (articolo 5 del Dl 167/1990) stabilisce che la violazione dell’obbligo dichiarativo è punita con la sanzione dal 3 al 15% degli importi non indicati, penalità raddoppiata nel caso le attività siano detenute nei Paesi black list. Certamente si può sostenere che l’entità ordinaria della sanzione risulta quella dal 3 al 15% e che il “raddoppio” della stessa opera esclusivamente, come deroga, nella particolare ipotesi di detenzione delle attività nei Paesi a fiscalità privilegiata. Con la conseguenza che, non potendosi individuare la detenzione delle criptovalute – posta la loro a-territorialità – nei Paesi a fiscalità privilegiata (con l’ulteriore conseguenza dell’inapplicabilità della presunzione di cui all’articolo 12 del Dl 78/2009), si applicherebbe comunque, in caso di omessa indicazione dei coin, la penalità ordinaria dal 3 al 15% del valore non indicato (si tralascia la problematica della loro quantificazione).
Ma è evidente che si tratta, in ogni caso, di una conclusione forzata, posto che l’aspetto sanzionatorio risulta “naturalmente” collegato all’ubicazione territoriale delle attività, le quali devono risultare detenute all’estero, mentre le criptovalute, come si è detto, nella maggioranza dei casi non possono essere ritenute tali.
Si può così giungere alla conclusione che l’obbligo di indicazione nel quadro RW non sussista ogni qualvolta la persona fisica abbia la disponibilità della chiave privata, che rappresenta il “mezzo” attraverso il quale la stessa persona manifesta la volontà di disporre delle criptovalute.
«Custodi» esteri e RW 
Diverso potrebbe essere solo il caso in cui il contribuente residente non abbia la disponibilità della chiave privata e si avvalga dei cosiddetti custodial wallet. Occorre premettere che, diversamente da altre disposizioni del Dl 167/1990 in cui vengono richiamate talune norme in materia di antiriciclaggio (si pensi al richiamo ai cosiddetti exchanger di cui all’articolo 3, comma 5, lettera i, del Dlgs 231/2007, contenuto nell’articolo 1 del decreto sul monitoraggio fiscale), la norma esclude dall’obbligo dichiarativo del quadro RW le attività detenute all’estero qualora i redditi derivanti da tali attività vengano assoggettati a ritenuta o a imposta sostitutiva da parte di intermediari residenti. Cosa che, evidentemente, non avviene per le criptovalute.
Dal che se ne deduce che l’indicazione nel quadro RW può sussistere solo per le criptovalute per le quali le chiavi private sono gestite dal custodial wallet, se quest’ultimo risulta soggetto residente o domiciliato all’estero. L’indicazione non avrebbe senso, invece, per le criptovalute gestite attraverso custodial residenti in Italia, venendo a mancare ogni legame con l’estero (anche considerando il prossimo obbligo di iscrizione presso l’Oam dei soggetti operanti in criptovalute).
In definitiva, finché la questione non verrà regolata normativamente, sono queste le soluzioni che paiono più appropriate, nonostante il parere contrario delle Entrate.
L’indicazione senza Paese
Peraltro, la risposta all’interpello non affronta il problema dell’indicazione nel quadro RW del Paese estero. Risulterebbe un ossimoro, una sorta di “asset apolide”, la compilazione del quadro RW senza l’indicazione dello Stato estero.
L’esclusione dall’Ivafe 
Da ultimo, va rilevato che la risposta all’interpello afferma che la detenzione delle valute virtuali non è soggetta all’Ivafe, in quanto tale imposta va applicata soltanto ai depositi e conti correnti di “natura bancaria”.

In definitiva quindi, basta detenere le proprie criptovalute su un wallet di cui si possiedono le chiavi per non  essere soggetti a tassazione, nè all’obbligo di trascrizione sul quadro RW, come quando le valute straniere possedute siano tenute in cassaforte, e non presso istituti bancari esteri. 

Tra le altre ed oltre tutto, ecco cosa emerge in un altro articolo a firma di Dario Deotto:

“L’Agenzia, nella risposta all’interpello n. 956-39/2018, afferma che alle persone fisiche “private” che detengono criptovalute si applicano – ai fini della tassazione reddituale – le regole riguardanti le valute estere. Si conferma così un breve passaggio (si tratta di due righe del documento) della risoluzione 72/E/2016 delle Entrate.
Il fatto è, però, che l’assimilazione alle valute estere porta ad applicare tutta la disciplina prevista dagli articoli 67 e 68 del Tuir. La norma (in questo caso la lettera c-ter dell’articolo 67) ritiene espressiva di un’attività di investimento, con presunzione assoluta di legge – che non ammette prova contraria – il (semplice) prelievo delle valute estere da depositi e conti correnti.
Tale previsione è in parte attenuata dal successivo comma 1-ter dell’articolo 67, con il quale viene stabilito che le plusvalenze generate dalla cessione a titolo oneroso di valute estere derivanti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che – nel periodo d’imposta in cui esse sono realizzate – la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno 7 giorni lavorativi continui.
Il connubio di queste due previsioni, se applicate alle criptovalute, porta a conseguenze rilevanti.
Infatti, va considerato che è il semplice prelievo dal «deposito o conto corrente» che genera per presunzione assoluta di legge, seppure “edulcorata” dalla previsione del comma 1-ter, materia imponibile, che poi deve essere determinata con le regole del successivo articolo 68 (comma 6 e comma 7, lettera c). Tant’è che la risposta all’interpello afferma la rilevanza reddituale di ogni prelievo considerando l’insieme dei wallet detenuti dal contribuente, per i quali sia stata superata la giacenza media in euro di 51.645,69 per almeno 7 giorni lavorativi. E questo a prescindere dall’intento speculativo, ma anche per il semplice acquisto di un bene (nel caso dell’interpello si trattava dell’oro, ma potrebbe anche trattarsi, per assurdo, di una pizza).
Tutto ciò porta a delle conclusioni davvero irrazionali. Il fatto è che il wallet non può in alcun modo essere considerato «deposito o conto corrente».
L’errore sta però alla base: quello di assimilare le criptovalute alle valute estere. Il concetto di valuta ha sempre un collegamento con uno Stato o un gruppo di Stati, che non necessariamente la emettono, ma la riconoscono legalmente come mezzo di scambio.
Tutto ciò evidentemente non accade per le criptovalute, tant’è che anche la normativa antiriciclaggio interna (Dgls 231/2007) si affranca da una classificazione delle monete virtuali come valute estere, stabilendo che si tratta di rappresentazione di valore «non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale».
Così che il trattamento di eventuali plusvalenze derivanti da un loro impiego come strumento di investimento deve seguire altre strade. Una ipotetica è quella di considerare i coin «titoli non rappresentativi di merce» (lettera c-ter dell’articolo 67), tra i quali rientrano, ad esempio, le cambiali finanziarie e i certificati di deposito.
Il fatto è che nel concetto di «titoli non rappresentativi di merce» ricadono tutti quelli che non sono rappresentativi di una partecipazione al capitale o al patrimonio di un ente collettivo, ma occorre comunque che vi sia un emittente del titolo, cosa che non si avvera per le criptovalute.
Così, non potendosi inquadrare eventuali proventi tra i «redditi» di cui alla lettera c-quater dell’articolo 67 – che attiene i contratti derivati o altri contratti a termini di natura finanziaria – la soluzione più plausibile è che eventuali plusvalenze vengano assoggettate a tassazione come redditi diversi in base all’articolo 67, comma 1, lettera c-quinquies del Tuir, posta la funzione di “chiusura” di tale disposizione (circolare 165/E/1998) rispetto alle precedenti lettere c-ter e c-quater. Il problema è che questa conclusione comporta la non rilevanza reddituale di eventuali minusvalenze.”

Il che significa che anche volendo a tutti i costi considerare le criptovalute tassabili, assodato che generino “guadagni” nelle condizioni e nel periodo reddituale di cui sopra, al contrario non potrebbero essere annoverate come  detraibili a livello di tassazione, nel caso che alle stesse condizioni, generassero “perdite” .

Concludendo si conferma quindi quanto esposto nel titolo di questo mio intervento: le criptovalute non sono e non saranno per loro natura facilmente inquadrabili fiscalmente e quindi meglio astenersi dal dichiararle .

Altri eventuali approfondimenti li potete leggere QUI             

Aggiornamento del 21 maggio 2018 – da Il Sole 24 Ore

La tassazione dei bitcoin e i paradossi delle Entrate

di Dario Deotto e Paolo Luigi Burlone

Si è più volte cercato di rappresentare su queste pagine che la vagheggiata certezza del diritto è argomento buono “per le masse”; in realtà, il diritto è strutturalmente incerto per “natura”. Il diritto, peraltro, ha sempre rincorso la tecnica. È un po’ come la questione del doping e dell’antidoping: il primo è senz’altro più evoluto del secondo. Così è il rapporto tra diritto e tecnica: il diritto è, da sempre, destinato a rincorrere la tecnica. Si pensi alla questione delle criptovalute, alla quale si vorrebbero dare delle soluzioni utilizzando strumenti desueti, che non possono affatto cogliere l’essenza del fenomeno stesso.
In alcune occasioni, le Entrate hanno assimilato le operazioni legate alle criptovalute a quelle relative alle valute estere (si veda tra l’altro Il Sole 24 Ore del 23 aprile). Tuttavia, come si è già riportato, una valuta estera ha sempre un collegamento con uno Stato o con un gruppo di Stati, che non necessariamente la emettono, ma la riconoscono legalmente come mezzo di scambio.
Occorre poi considerare che l’unica norma di legge nazionale che ha regolato il fenomeno delle criptovalute è quella antiriciclaggio (Dlgs 231/2007), con la quale è stato stabilito che le valute virtuali consistono in una «rappresentazione digitale di valore non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente». Peraltro, nella recente V direttiva antiriciclaggio, ancora più chiaramente, viene affermato che le valute virtuali non possiedono «lo status giuridico di valuta o moneta». In sostanza, dalla normativa antiriciclaggio emerge la chiara incompatibilità tra il concetto di criptovaluta e quello di valuta estera.
Eppure, sotto il profilo reddituale si vorrebbero applicare alle criptovalute le regole di tassazione – per persone fisiche “private” – previste per le valute estere (lettera c-ter dell’articolo 67 del Tuir). In base a tale previsione, realizzano redditi diversi le plusvalenze relative a valute estere oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti. La norma fissa come presunzione assoluta di legge – che non ammette prova contraria – il (semplice) prelievo delle valute estere da depositi e conti correnti, ritenuto espressivo di capacità contributiva. A tal fine, andrebbe però considerato che, come più volte la Consulta ha stabilito, le presunzioni assolute in relazione ai tributi erariali risultano vietate (quindi sono incostituzionali), in quanto il contribuente deve avere la possibilità di fornire la prova contraria circa la propria “attitudine contributiva”. Ulteriormente andrebbe considerato che il concetto di “conto o deposito” non può essere esteso al wallet, il quale non memorizza né contiene criptovalute (non c’è alcun saldo); si tratta semplicemente di un software (o hardware) che crea e memorizza le chiavi private associate a quelle pubbliche.
Ancora, va rilevato che la norma (comma 1-ter dell’articolo 67) stabilisce che le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere derivanti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che, nel periodo d’imposta in cui esse sono realizzate, la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui. Se applicata alla criptovalute, si tratta di una disposizione che dimostra tutti i suoi limiti.
Basta fare un esempio. Si consideri il caso di Tizio che a inizio 2017 deteneva 6.200 ether (cambio di inizio periodo circa 7 euro cad.) e che li ha venduti a fine 2017 a 700 euro per ogni ether, incassando oltre 4 milioni di euro. Ebbene, considerando ether «valuta estera», si avrebbe che, utilizzando il “cambio” al 1° gennaio 2017, Tizio, pur realizzando una ingentissima plusvalenza, ne eviterebbe la tassazione.
Inoltre, in un contesto davvero “vivace”, va considerata la quasi impossibile applicazione del cambio vigente all’inizio del periodo d’imposta (articolo 67, comma 1-ter), per tutte quelle Ico sorte nel corso dell’anno: si pensi alle molte “nate” nel corso del 2017.
Questo conferma ulteriormente la inadeguatezza dell’interpretazione che vorrebbe assimilare il trattamento tributario delle criptovalute alle valute estere (contenuta tra l’altro nell’interpello 956-39/2018). Se fosse realmente così, la rincorsa del diritto alla tecnica sarebbe davvero tutta in salita.

COME VOLEVASI DIMOSTRARE: IL BITCOIN NON E’ TASSABILE . PAROLA DI AGENZIA DELLE ENTRATE

02/09/2016

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L’Agenzia delle Entrate si è finalmente decisa a rispondere agli interpelli di cittadini privati ed imprese che chiedevano lumi a proposito del trattamento fiscale dovuto per chi svolge attività di cambio in criptovalute (Bitcoin). Su questo argomento mi sono trovato spesso a “litigare” con colleghi , amici e soloni vari in quanto ho sempre espresso con forza il concetto che il Bitcoin esiste anche  per rivoluzionare il rapporto di sudditanza che il cittadino (e quello italiano è in prima fila) ha verso le istituzioni che invece dovrebbero essere al suo servizio (e non il contrario). La sua natura decentralizzata , pseudoanonima e sfuggente è così anche perchè i suoi creatori, restituendo finalmente la libertà economica e finanziaria a chi lo possiede, hanno cambiato anche l’approccio che una persona libera finanziariamente, ha nei confronti dell’imposizione fiscale.  Si passa cioè di fatto dall’ obbligo assoluto e incontestabile di pagare le tasse (con la tracciatura dei patrimoni e persino degli stili di vita),  al “pago le tasse che ritengo giuste”. E in uno Stato vampiro e sempre inadempiente come l’Italia, ciò ha una funzione di riequilibrio notevole in questo rapporto con il cittadino. La questione dell’interpello all’Agenzia delle Entrate non andava nemmeno posta quindi a mio parere, perchè è fin troppo chiaro, che non avendo alcun riconoscimento giuridico del suo status o essendo comunque molto difficile da definire per la sua natura  contemporanea di valuta, sistema di pagamento e asset finanziario, il Bitcoin non ha le caratteristiche per essere regolato al di fuori del suo potente algoritmo e perciò tanto meno tassato.  Già un sentore di tali difficoltà si era percepito quando, nel gennaio 2014 l’on. Boccadutri (Sel) propose in sede di finanziaria  una forma di riconoscimento del Bitcoin e il suo emendamento non fu nemmeno preso in considerazione in quanto “l’Italia non ha più sovranità monetaria” (così ,in parole spicciole, rispose l’allora Presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati) demandando perciò all’UE – EBA il compito di emettere una qualche direttiva in tal senso.  Ebbene, l’Europa ha battuto un colpo appena nell’ottobre 2015 decretando in maniera solonica che, nonostante Bitcoin non possa essere considerato valuta a corso legale, gli scambi tra questo e le valute fiat (euro, dollaro, sterlina, rublo, yen, uan ecc.) sono da considerarsi come operazioni esenti IVA. Un segnale chiaro di quanto da me sostenuto, purtroppo molti “asini ” hanno anche i paraocchi e si ostinano a fare i “bravi cittadini che pagano le tasse” anche quando non serve.  La risposta all’interpello dell’Agenzia delle Entrate   e il seguente comunicato sembra definitivamente (temo però solo per ora) chiudere la questione a favore delle mie convinzioni.

AdElogo

Ufficio Comunicazione

COMUNICATO STAMPA

Acquisto e vendita di bitcoin e monete virtuali
In una risoluzione i chiarimenti delle Entrate sul trattamento fiscale

Esenzione Iva per le operazioni di cambio di bitcoin.

Le attività di intermediazione di valuta tradizionale con moneta virtuale svolte dagli operatori del mercato non scontano l’Iva in quanto rientrano tra le operazioni relative a banconote e monete. Per i clienti persone fisiche, invece, che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, si tratta di operazioni a pronti che non generano redditi imponibili perché manca la finalità speculativa. Sono questi i principali chiarimenti della risoluzione n. 72/E pubblicata oggi, con cui l’Agenzia delle Entrate, in linea con i recenti orientamenti della Corte di Giustizia dell’UE, illustra il trattamento fiscale da applicare a chi svolge attività di acquisto e cessione a pronti di moneta virtuale in cambio di valuta “tradizionale”.

Imposte dirette e Iva – Il documento di prassi precisa che le operazioni relative ai bitcoin sono prestazioni di servizi esenti da Iva. Sul piano della tassazione diretta, invece, i ricavi che derivano dall’attività di intermediazione nell’acquisto e vendita di bitcoin sono soggetti ad Ires ed Irap, al netto dei relativi costi. Per valutare i bitcoin di cui la società dispone a fine esercizio occorre considerarne il valore normale, cioè la loro quotazione in quel momento.

Niente oneri da sostituto d’imposta – Per quanto riguarda i clienti persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, la risoluzione chiarisce che si tratta di operazioni a pronti che non generano redditi imponibili perché manca la finalità speculativa. Ne deriva che gli operatori non sono tenuti agli adempimenti tipici dei sostituti d’imposta. Resta ferma la facoltà dell’Agenzia, in sede di controllo, di acquisire le liste della clientela per le opportune verifiche.
Roma, 2 settembre 2016

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Qualcuno obbietterà   che a livello di impresa è invece tassabile eccome.  In realtà pensandoci bene, nella quasi totalità dei casi le attività di impresa sono interessate al bitcoin in quanto sistema di pagamento senza costi ( al contrario dei servizi bancari, POS e carte di credito) parificabile alla ricezione di un pagamento in contanti e con  tempi pressochè nulli di ricezione.  Sono quindi più interessati , per offrire questa opportunità di pagamento ai loro clienti, ad un processore di pagamento stile BitPay o GoCoin  che accetti bitcoin per loro e giri sul conto corrente aziendale il controvalore in euro, che a detenere un certo numero di bitcoin da contabilizzare a fine esercizio annuale. Per la piccolissima minoranza che svolge attività finanziaria di brokeraggio o similis, il Bitcoin invece non rappresenta contabilmente, nè più nè meno di qualsiasi altro prodotto finanziario da trattare ai fini fiscali in relazione a plus o minus valenze generatesi durante l’esercizio annuale.

Sarebbe interessante conoscere nel corso di eventuale “opportuna verifica” quale sia la  quotazione bitcoin di riferimento presa in considerazione dall’Agenzia delle Entrate, atteso che notoriamente il bitcoin vale quanto uno è disposto a pagarlo ed un altro a venderlo e che risulta facilissimo quindi far risultare delle perdite anche dove ci sono guadagni. Alla luce di quanto espresso, anche sulle imprese, il trattamento fiscale ai fini IRES – IRAP mi appare perlomeno aleatorio.

Gavrilo


Aggiornamento del 07/09/2016

Oggi un articolo di Marco Piazza sul ilsole24hlogo  dal titolo :

Le operazioni in Bitcoin non tassabili come le banconote

 

interviene coerentemente alle mie posizioni… Potete leggerlo cliccando sul logo del quotidiano

Perchè la blockchain piace ai governi più del Bitcoin.

The Blockchain Should Not Just Be Used To Issue Digitized Fiat Currency. newsbtc

Con così tanti paesi in tutto il mondo che tengono d’occhio l’evoluzione dei pagamenti dei consumatori, drastici cambiamenti sono destinati a succedere prima o poi. La Norvegia sta cercando di sbarazzarsi completamente dei pagamenti in contanti mentre in Regno Unito ci sono sollecitazioni nelle istituzioni ad abbracciare la blockchain e la valuta digitale. Ma cosa  accadrebbe se i vari paesi del mondo improvvisamente decidessero di creare la propria moneta digitale?

Emissione di valuta contante digitalizzata su una Blockchain

Pochi giorni fa, la BBC ha riportato un rapporto del capo consulente scientifico del Regno Unito che esortava il governo a mettersi in gioco per il futuro sviluppo della tecnologia blockchain. Non per aiutare il  Bitcoin direttamente, si badi bene, ma piuttosto per eseguire i servizi pubblici del paese in un modo più conveniente, trasparente e responsabile.

Non è un segreto che la blockchain che alimenta la rete Bitcoin può essere utilizzata per qualsiasi cosa possa venir in mente,  anche se questa idea  può non aver nulla a che fare con la finanza. La gestione dei dati ad esempio, sta diventando un argomento caldo, come cioè i governi stiano raccogliendo sempre maggiori e ulteriori informazioni sui consumatori, ma non riescano ad utilizzare correttamente o registrare questo vasto patrimonio di informazioni.

Come suggerisce il nome, una blockchain sposta blocchi di dati in giro su una rete  alimentata da potenza computazionale. Ogni computer dedicando il suo potere alla rete blockchain, eseguirà una copia perfetta di quelle informazioni, creando un sistema completamente decentralizzato. Rimuovendo il punto centrale di fallimento nel sistema di memorizzazione dei dati, non vi è alcuna possibilità di manomettere le informazioni registrate.

Abbracciare la blockchain per vari scopi governativi sembra essere la strada giusta. Non solo sarebbe possibile memorizzare e gestire i dati, ma sarebbe d’aiuto con quasi ogni aspetto delle azioni quotidiane che rendono un paese funzionante . In effetti, i paesi potrebbero anche decidere di digitalizzare le loro valute locali e rilasciare il nuovo modulo  su una blockchain. Ciò consentirebbe in un dato momento, di tenere sotto controllo tutta la valuta locale, eliminando completamente il rischio di falsificazione delle banconote .

Mentre non è ancora chiaro come  qualsiasi paese del mondo potrebbe o meno emettere moneta a corso forzoso in forma digitalizzata su qualsiasi blockchain, il concetto vale la pena sicuramente sia preso in considerazione. Tale sistema dovrebbe funzionare in modo  completamente autonomo rimuovendo l’elemento umano quasi completamente. Di conseguenza, i rischi di frode e di corruzione si ridurrebbero quasi a zero, il che, a sua volta, potrebbe essere molto utile per qualsiasi economia del mondo di oggi.

La Norvegia vuole rimuovere completamente l’uso del contante.

Uno dei primi paesi che potrebbero essere alla ricerca di digitalizzare completamente il contante è la Norvegia. Sulla base di una recente dichiarazione della più grande banca del paese, non c’è più bisogno di operazioni di cassa in Norvegia. Anzi, i pagamenti per cassa sono pericolosi e scomodi , diventando meno preferibili rispetto alle opzioni elettroniche.

Le statistiche sembrano indicare che sempre meno norvegesi stanno utilizzando contanti in questi giorni. La maggior parte dei pagamenti avvengono con tessere (bancomat/ carta di credito) o soluzioni anche mobili, ma c’è ancora molto spazio di miglioramento, soprattutto  nei pagamenti con carta. La blockchain potrebbe risultare più rapida nella compensazione  e nel regolamento delle transazioni.  Facendolo si rimuoverebbero problemi di liquidità dei rivenditori che potrebbero verificarsi durante i periodi di vendita affollati o nei fine settimana, in cui i trasferimenti di fondi in entrata possono avere un ritardo in alcuni casi di diversi giorni.

In un futuro molto prossimo avrebbe senso per qualsiasi governo abbracciare la tecnologia blockchain e registri distribuiti . Come questa soluzione potrebbe essere attuata, e in quale veste possa essere utilizzata, è una questione diversa, però. La digitalizzazione delle valute fiat esistenti è solo un’opzione di come la blockchain può essere adattata per soddisfare praticamente qualsiasi esigenza che viene in mente. (Un’altra sarebbe affiancare all’euro una moneta locale digitalizzata, una cripoLira ad esempio ed usarla come calmiere… n.d.gav.)

Tuttavia, l’emissione di monete digitali indipendenti su una blockchain potrebbe creare una nuova serie di problemi. Le banche e governi potrebbero tenere traccia di tutti i fondi in un dato momento – di chi li possiede e come il denaro digitale viene speso – il che si prefigura come una invasione della privacy senza precedenti (ma ottima per il controllo sull’evasione fiscale che verrebbe praticamente azzerata in Paesi come l’Italia n.d.gavr.) Inoltre, questo comporterebbe un numero spropositato di  blockchains, che non è ciò x cui questa tecnologia è stata escogitata. L’obiettivo di questo ecosistema è quello di creare una piattaforma alla quale chiunque nel mondo può accedere, a prescindere dai servizi o dai rapporti  finanziari in essere con le istituzioni.

Il Bitcoin ha mostrato al mondo come è facile da usare una blockchain che connetta chiunque in tutto il mondo. La popolare moneta digitale funziona in tutto il mondo e fornisce all’utente finale il controllo completo sulle sue finanze. Resta quindi il dubbio che blockchains private ​​- come quelli create da banche e governi – possano offrire gli stessi privilegi.

Source: IB Times